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L’importanza di non fare il punto: note sulla dimensione
rizomatica dell’opera di Mauro Panichella

Paola Valenti

2009 - 2024: in quest’arco cronologico si collocano le opere che Mauro Panichella ha deciso di far convergere nella mostra allestita ad Albissola Marina negli spazi di Casa Museo Jorn e della Lavanderia. Due sedi assai diverse per storia, tipologia e ubicazione, ma con un elemento in comune tutt’altro che secondario: entrambe, infatti, sono appartenute ad artisti che ne hanno fatto non semplici abitazioni o studi, ma vivaci luoghi di incontro e di condivisione in un momento in cui, negli anni cinquanta, la cittadina ligure era uno dei centri dell’avanguardia internazionale. Una condizione che negli ultimi anni, grazie all’impegno delle istituzioni e di numerose associazioni culturali, si è andata felicemente ricreando.
Nel percorso di un artista non ancora quarantenne (Panichella è nato nel 1985) quindici anni di attività possono rappresentare un periodo sufficientemente lungo da giustificare uno sguardo retrospettivo che permetta di fare il punto sul lavoro svolto. Per contro, l’iniziale invito a progettare un’‘antologica’ ha innescato in Panichella una riflessione sulla sostanziale inconciliabilità del proprio metodo di lavoro e del sostrato ontologico della propria opera con la valenza metaforica della locuzione verbale ‘fare il punto’; una frizione così radicale da indurre l’artista a ideare per la mostra un titolo che rendesse esplicita la propria linea teorica e operativa: Fare la linea e non il punto.
Pare che l’espressione ‘fare il punto’ derivi dal francese ‘faire le point’, registrata a partire dal 1835 nel gergo marinaresco, con riferimento all’atto del localizzare materialmente, con un punto, un’imbarcazione sulla carta geografica in base alle sue coordinate. La sua estensione semantica – dall’individuare la posizione di una nave all’orientarsi in un dato contesto o compiere una ricognizione circa lo stato di un progetto – è attestata, ancora nel francese, solo un secolo dopo. Sebbene nella lingua italiana questa locuzione si sia affermata con entrambi i valori, il suo impiego oggi più diffuso è sicuramente quello figurato, usato “per esprimere l’opportunità di una ricapitolazione: fare il punto della situazione”1. In tale accezione l’espressione rende manifesta un’aspirazione a creare categorie comportamentali e fenomenologiche e a fissarne la posizione nel tempo e nello spazio che è, appunto, del tutto estranea al modus operandi di Panichella. Fin dagli esordi, infatti, l’artista ha manifestato un’attitudine nomadica che lo ha portato a esplorare, attraverso viaggi e studi, i territori dei miti arcaici e dei rituali sciamanici, dell’antropologia, dell’astronomia e delle scienze naturali, dell’incommensurabilmente grande e dell’infinitamente piccolo, dei mondi acquatici e della volta celeste2. In questi territori Panichella ha maturato conoscenze teoriche, ha individuato tracce, raccolto reperti ed effettuato prelievi – elementi vegetali, fossili, ossa di animali, ma anche oggetti industriali in disuso –; vestendo i panni del ricercatore, li ha osservati, analizzati, archiviati, annotando su innumerevoli taccuini progetti per i loro possibili impieghi. In diverse occasioni, infatti, Panichella ha custodito i suoi ritrovamenti fino al momento in cui ha potuto “riattivarne il timer”, offrendo loro “un nuovo tragitto come opera d’arte”3. E quando ciò è accaduto, il tragitto non è mai stato predeterminato da una volontà autoriale: al contrario, Panichella ha scelto di affidarsi alle proprie capacità ideative e alla padronanza di svariate tecniche e mezzi espressivi (fotografia, foto-scansione, video, installazione, scultura, performance, quasi sempre usati in modo sperimentale) per inserire i reperti al centro di sistemi nei quali le traiettorie del tempo e dello spazio diventano multidirezionali, amplificandone così le potenzialità simbolico-semantiche e attivando un processo di deterritorializzazione, sia geografica che concettuale, della loro presenza nell’opera rispetto al contesto di origine.
Emblematico di questo modo di procedere è il caso di Nandù, una installazione realizzata nel 2012, esito ultimo di un processo innescato nel 2008, durante un viaggio in Argentina, dall’incontro del tutto fortuito dell’artista con un teschio dell’omonimo animale, un
volatile simile a uno struzzo: “Il cranio era disteso per terra in mezzo al deserto, decomposto e seccato al sole, sclerotizzato dalla natura e dal suo inesorabile esercizio […]. L’artista fotografò il teschio e decise di portarlo in Italia. Un oggetto osseo che una volta faceva parte di un corpo, di un animale vivo […], fugace come un apparato vivente, ma eterno come la traccia che lascia sulla Terra. […] Nel 2012, l’installazione Nandù è stata presentata all’Ateliery Tranzit Hangar di Bratislava. Dall’Argentina all’Italia, dall’Italia alla Slovacchia: il viaggio del teschio segna una traccia che si è sviluppata nello spazio e nel tempo, come se alla sua reperibilità materialmente si contrapponesse una moderna ideologia virtuale che dà all’oggetto durata illimitata, che rende un documento un file”.4
Credo sia importante soffermarsi a riflettere sul fatto che, in quella circostanza, Panichella avesse deciso di scattare la fotografia e di prelevare il cranio dell’animale spinto dalla sua insaziabile curiosità per tutto ciò che si nasconde tra le pieghe dei saperi, non con l’intento di procurarsi il materiale per un progetto artistico già mentalmente abbozzato. Come in altri casi, infatti, l’opera ha preso forma nel tempo: un periodo lungo ben quattro anni durante i quali l’artista ha lasciato sedimentare le suggestioni generate dall’incontro imprevisto, ha affinato la conoscenza del reperto attraverso lo studio e ha atteso che esso entrasse in sintonia con le proprie riflessioni teoriche e sperimentazioni linguistiche. Significativamente, quando nel 2012 Nandù ha preso la forma di una installazione in cui i resti dell’animale, preservati dall’artista nella loro fisicità, si dematerializzano nell’immagine digitale (che, paradossalmente, ne potenzia la possibilità di esistere nel tempo e nello spazio), il dialogo tra il mondo reale e quello virtuale si era ormai affermato come uno dei
cardini della ricerca artistica di Panichella, e la scelta del medium rispondeva alla necessità di amplificare le riflessioni sulla complessità della relazione tra natura e tecnologia.
Nel 2009, dopo essersi diplomato in pittura presso l’Accademia Ligustica, Panichella aveva infatti deciso di abbandonare il pennello per affinare le sperimentazioni con macchine fotografiche, videocamere, fotocopiatrici e scanner:
“Nel 2006 per gioco fotocopiai la mano di un mio amico, rimasi colpito dall’immagine che avevo prodotto e decisi di incominciare ad approfondire quella tecnica. Iniziai a usare il mio scanner come uno strumento fotografico, la necessità di sperimentare mi portò a utilizzare il mio corpo come soggetto e di conseguenza a ragionare sull’identità e sul postorganico. Le sperimentazioni su me stesso furono fondamentali per lo sviluppo del mio metodo di lavoro. Mi resi conto che quando appoggiavo il viso sul vetro dello scanner e il sensore luminoso innescava il movimento era come se fossi affacciato a una finestra verso un mondo virtuale, dove il mio riflesso, il mio ‘doppio’ non era altro che una copia digitale, una vera e propria identità parallela”.5
Questa testimonianza risale all’ottobre del 2016; esattamente tre anni dopo, nell’ottobre del 2019, Panichella torna a riflettere su quelle sperimentazioni:
“Mi sono reso conto molto più avanti dell’importanza di quell’approccio ingenuo e quasi primitivo con la tecnologia. Usavo lo scanner come un utensile, appoggiandolo al mio corpo compivo un’azione che si può definire performativa. Successivamente mi sono allontanato dall’utilizzo visivo del mio corpo, ho iniziato a considerare altre identità, riflesse e mutevoli. Il mio corpo è diventato il corpo di altri animali, di altre identità; lo scanner è diventato un portale verso una realtà diversa dalla nostra, dove persino noi stessi non appariamo più come siamo. Poi è diventato uno strumento-teca, che usavo, e uso tutt’oggi, come il vetrino di un microscopio per oggetti ritrovati. Gradualmente, il mio lavoro si è distaccato sempre più dalla ricerca sull’identità, e sono convinto che questo sia accaduto perché nel frattempo ho iniziato io stesso a capire qual è il mio ruolo, a capire chi ero, a capire chi sono; un processo naturale
ed esistenziale che, necessariamente, si è riflesso nel mio lavoro. Recentemente ho valutato la possibilità del ritorno della mia presenza fisica all’interno di un lavoro. Il Rituale dell’inatteso ha a che fare con l’uomo, con il suo rapporto con il cosmo e, quindi, con la natura. Nel video che lo accompagna costruisco un cerchio piantando otto costole di balena sul terreno”.6
Il rituale dell’inatteso è oggi parte della mostra Fare la linea e non il punto, opportunamente riconfigurata da Panichella per instaurare un dialogo puntuale con il nuovo contesto. Di ciò rende conto Paola Gargiulo nel testo qui pubblicato, dove vengono presentate tutte le
opere selezionate dall’artista per la sua ‘monografica diffusa’.
Per non duplicare informazioni e sovrapporre riflessioni ho scelto di non soffermarmi in questo testo sulle opere in mostra, ma Il rituale dell’inatteso mi costringe a fare un’eccezione: come Nandù, anche questa installazione trae origine dall’incontro fortuito con i resti di un animale, in questo caso un capodoglio la cui carcassa era stata recuperata dai fondali del Mar Ligure e in parte depositata su una spiaggia di Albissola Marina e, come Nandù, prende forma grazie all’incontro di due discipline, l’arte e l’antropologia, che Mauro Panichella immagina “come due sorelle che, tenendosi per mano, procedono verso il futuro guardando il passato, senza
sapere quale è la direzione”.7
Stanno così affiorando alcuni tratti di quel sostrato ontologico che informa l’opera di Panichella e che induce l’artista a sostenere, sulla scorta del pensiero di Gilles Deleuze e Felix Guattari, la necessità di fare la linea e non il punto. In Rhizome, testo che funge da introduzione al poderoso volume Mille Plateaux, secondo tomo del ‘dittico’ Capitalisme et schizophrénie, i filosofi francesi introducono questo concetto in forma di esortazione – Faites la ligne et jamais le point! – quasi al termine di un articolato ragionamento in cui si intrecciano, tra l’altro, riflessioni sulle aporie insite nel concetto di autorialità, sui limiti dei sistemi comunicativi e narrativi di impianto teleologico e, più in generale, sul portato coercitivo delle strutture gerarchiche e binarie su cui si fonda la cultura occidentale8. Riflessioni su questi temi compaiono in alcuni lavori dell’artista, ma è la metafora botanica del rizoma, usata dai filosofi per descrivere una struttura di pensiero alternativa, a trovare precisi riscontri nell’opera di Panichella: come nel rizoma, concetti e idee si connettono secondo traiettorie multidirezionali non predeterminabili che si espandono e trasformano in risposta a sollecitazioni casuali e imprevedibili, generando linee di de-territorializzazione o di ri-territorializzazione, di stratificazione, di circolazione, di nomadismo; come nel rizoma, “il rapporto con l’animale, con il vegetale, con il mondo, con la politica, con le cose della natura e dell’artificio” è in costante divenire e funziona come una mappa che può essere costantemente modificata e aggiornata; come nel rizoma, ciò che conta non è la rappresentazione, bensì la pratica, la produzione e l’indagine del modo in cui le connessioni e le relazioni producono nuovi significati e forme di pensiero.
Nella (doppia) mostra albissolese la dimensione rizomatica dell’opera di Panichella risulta non solo facilmente leggibile nei rimandi che si creano tra le singole opere e nelle stratificazioni di significati che tali rimandi producono, ma addirittura potenziata dalla relazione con il pensiero di Asger Jorn che ancora ‘abita’ gli spazi della fantastica casa giardino, anch’essa opera d’arte rizomatica, priva di un centro, antigerarchica, stratificata, poliedrica, imprevedibile. La relazione con Casa Jorn ha prodotto in Panichella pensieri nuovi che hanno preso forma nell’opera Asger hvad er der inde i tanken? [Asger, cosa c’è nella cisterna?], ideata e realizzata in situ e ad esso indissolubilmente legata, alla quale Daniele Panucci dedica il saggio qui pubblicato.
Ma anche per le altre opere, sebbene prodotte in diversi momenti e contesti, la connessione con il luogo ha fatto affiorare nuovi possibili significati e, con tutta probabilità, ne suggerirà altri.
La mostra si configura così come la linea multidirezionale che tiene in relazione dinamica tutti gli elementi e ne mette in circolo l’energia, offrendo al pubblico un’occasione per fare esperienza di un racconto che “non incomincia e non finisce” e per imparare “a
muoversi tra le cose”, “perché il mezzo non è affatto una media, al contrario è il luogo dove le cose prendono velocità”. E se anche noi pensiamo che sia ormai arrivato il momento di superare la necessita di ‘fare il punto’, allora dobbiamo imparare a sottrarci alle logiche deterministiche e funzionaliste che finalizzano ogni nostra azione a un risultato, alle gerarchie e ai dualismi che orientano i nostri comportamenti e i nostri sistemi di valore, e dobbiamo provare, come consigliava anche Asger Jorn, a essere onnivori, deterritorializzati e, soprattutto, veloci, perché “è la velocità che trasforma il punto in linea”.

1. Matteo Agolini, Due lessemi complessi attraverso il tempo:
sull’origine di ‘mandare a monte’ e ‘fare il punto’, https://acca-
demiadellacrusca.it/it/consulenza/due-lessemi-complessi-at-
traverso-il-tempo-sullorigine-di-emmandare-a-monteem-e-emfa-
re-il-puntoem/30483, marzo 2024.


2. Sull’attitudine nomadica diffusa tra artisti della contempo-
raneità si veda Nicolas Bourriaud, Il Radicante. Per un’estetica
della globalizzazione, Postmedia Books, Milano, 2014


3. Marco Panichella, Nandù, in Caterina Gualco, Antonio
d’Avossa (a cura di), Mauro Panichella. Finds, De Ferrari Editore,
Genova 2016, p. 20.


4. Ibidem


5. Mauro Panichella, Ciò che è e ciò che appare, in Gualco,
d’Avossa (a cura di), cit., 2016, p. 68.

6. Mauro Panichella, Come il + e il – che si incontrano, in Sara
Fontana (a cura di), Mauro Panichella. Il rituale dell’inatteso,
Sagep Editori, Genova 2019, pp. 15-16.


7. Ivi, p. 17.


8. Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et
schizophrénie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980; dall’introduzio-
ne Rizoma, nella traduzione italiana del volume pubblicata nel
2003 da Cooper Castelvecchi con il titolo Mille piani. Capitali-
smo e schizofrenia, sono tratte tutte le citazioni che seguiranno in
questo testo.

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