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Rainbow and constellations

Amina Gaia Abdelouahab

Stelle, tempesta, fulmini, pioggia, arcobaleno. La natura nelle sue espressioni più teatrali e scenografiche, nella sua cornice di cielo. Fenomeni cui abbiamo agganciato figure, mitologie, simbologie, metafore, che abbiamo “umanizzato”, di secolo in secolo, per raccontare di noi e dei nostri timori e desideri, che abbiamo reso funzionali, trasformato in qualcosa di diverso dalla loro pura esistenza. Fenomeni anche qui tradotti in objets trouvès, ready-made duchampiani, non lasciati mai al caso, però, bensì riempiti ancora di sensi e significati, di possibilità e rimandi culturali attraverso popoli ed ere. Immortali nel loro poter essere sempre altro. Stratificazioni e sovrapposizioni, ma anche ponti. Le operazioni di Mauro Panichella sono dense, profonde, suggestive, orizzontali e verticali insieme, fatte di echi continui. Raccontano, in qualche modo, di come l’uomo si relaziona con la natura, farcendola, ovunque e da sempre, di narrazioni, per darle “forme” più riconoscibili, per ritrovarvi ragioni e spiegazioni. È un lavoro di montaggio e smontaggio, di composizione e scomposizione. E così l’arcobaleno è gioco linguistico: in italiano è l’arco-forma-oggetto unito al baleno-lampo del fulmine, in inglese è l’arco della pioggia. I 7 colori che convenzionalmente lo compongono sono assenti: resta una scala-arco povera, minimalista, trovata per caso, che anziché portare in alto, porta da un lato all’altro dello spazio, come un ponte, come un passaggio. La simbologia del numero non è comunque tradita: 7 fulmini di luce al neon la attraversano, elettrici - e d’altronde sono tali anche in natura -. Baleni o anche serpenti, volendo. L’arcobaleno è un confine stretto e veloce, compare e scompare in un attimo, “in un baleno”, tra la pioggia e il sole; ci fa ben sperare anche se racconta una storia di limite, perché forse è superamento. L’arcobaleno è in cielo, è come una magia, ma qui è a terra e chiede uno sguardo diverso. Di notte, già centinaia e centinaia di anni fa, uomini come noi alzavano gli occhi in alto, univano i puntini delle stelle più luminose per costruire immagini e storie. Nel lavoro di Panichella le stelle scendono, come l’arcobaleno, le costellazioni sono tridimensionali, sul muro, davanti a noi. Hanno l’aspetto di tre celebri guerrieri mitologici, in alluminio e neon. La luce è riservata al serpente, al bastone, alla pelle di leone, alle armi della vittoria, ai simboli della sconfitta del mostro. Quale mostro, poco importa, per chi guarda: di mostri è pieno il mondo, una storia sempre attuale. E poi una fotografia, un autoritratto romantico ma anche netto, filmico più che pittorico, come fosse un fermoimmagine, ancora elettrico, da Lars Von Trier: un uomo di spalle chiama all’immedesimazione, guarda alla sua selva, la illumina con una potente torcia? Il cielo, però, non è plumbeo o terrificante, non sembra presagire alcuna tempesta né suggerire sconvolgenti rivelazioni, melanconici stati d’animo; un’improvvisa rivelazione, invece: forse dal bosco siamo usciti, “a riveder le stelle”. 

 

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