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Interviste

2020

Per poter comprendere la scelta del titolo, all’apparenza criptico, della sua ultima personale daUnimediaModern a Genova, dobbiamo necessariamente procedere a ritroso.
Il rituale dell’inatteso di Mauro Panichella (1985) non è la prima mostra nella galleria genovese con cui l’artista ha stretto un legame molto importante e significativo per la sua ricerca e che lo ha portato a prendere sempre più coscienza della sua posizione di artista nel mondo. Perché, in fondo, l’uomo, da sempre “prende la misura di tutto ciò che lo circonda per dare senso al suo esistere”…

Dopo un percorso iniziale, essenzialmente pittorico, il tuo lavoro vira verso procedimenti di acquisizione dell’immagine, “alternativi”, che prevedevano la mediazione di una macchina, nello specifico di uno scanner… Cosa ti ha attratto inizialmente di questo strumento? Come te ne sei servito e cosa rappresentava concettualmente per te?
Quando iniziai ad avvicinarmi all’idea di voler produrre arte (stiamo parlando dei tempi in cui frequentavo l’Accademia di Belle Arti, erano i primi anni del 2000) sentii la necessità di approfondire le mie ricerche sul percorso, fortemente metalinguistico e vagamente distopico che il mondo che mi circondava sembrava pronto a percorrere. Nell’arco di pochi anni, la produzione digitale e la tecnologia informatica applicata alla vita sociale sviluppò progressi impensabili con conseguenze importanti sulla nostra società, ad esempio, basta pensare alle dinamiche sociali scaturite dall’uso dei social networks. È stato il periodo, e ora lo si può dire con una certa consapevolezza, in cui siamo tutti entrati nel mondo del futuro, complice anche l’euforia scaturita dall’aura del nuovo millennio. In quel periodo iniziai ad usare lo scanner per generare ritratti (spesso autoritratti) virtuali. Volti deformati dalla pressione sul vetro e immagini dai colori virati al rosso ambra, identità altre, speculari ma estranee, prigioni di una meta-realtà che iniziavo ad associare all’apnea, quindi alla soglia che separa il mondo reale dal mondo sottomarino, e il movimento dello scanner era l’avanzare e il ritrarsi della marea.

Lo scanner non fa più parte della tua ricerca ma di fatto resta come “rumore di fondo” nel tuo approccio all’arte in generale, sul confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è…
Esatto. Una volta entrati nel brodo dell’era digitale, ovvero, una volta assodato che nella società di cui facciamo parte è diventato sempre più complicato discernere il reale dalla finzione (ho una formazione pittorica, ho sempre avuto a che fare con la finzione), l’unica cosa che fa sembrare reale il reale è la scienza, intesa anche in senso filosofico, come conoscenza.
L’interesse verso la natura, lo sviluppo tecnologico dal punto di vista pragmatico, ingegneristico, la passione per la fisica e la chimica, l’antropologia, l’astronomia hanno accompagnato il mio lavoro, dandomi gli strumenti per fare arte in totale libertà, senza vincoli di alcun tipo. Il filo conduttore del mio lavoro è rintracciabile nella mia attitudine, e il “confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è” è inevitabilmente e naturalmente coinvolto in ogni mia opera, perché è da lì che tutto ha avuto inizio. Il mio è un approccio entusiastico e istintivo e spesso mi sembra di andare fuori rotta, poi penso agli artisti che amo, che hanno fatto della poliedricità e dell’attitudine un linguaggio, rischiando spesso di uscire dalle dinamiche del mercato perché avulsi dal sistema, e sento di nuovo il vento in poppa.

Con un salto temporale arriviamo a Il rituale dell’inatteso…
Il rituale dell’inatteso è parte di un percorso iniziato nel 2011, anno in cui ho iniziato a lavorare con la galleria UnimediaModern e con Caterina Gualco. Da allora sono passate due mostre personali, ma anche molti progetti collettivi e collaborazioni. Il rapporto di scambio reciproco avuto con Caterina nel corso di questi anni è stato indubbiamente formativo. Un artista, d’altronde, non vive di questo? Si orienta grazie a punti di riferimento, che molto spesso sono persone che promuovono il suo lavoro perché ne sono sinceramente affascinate e nel quale credono profondamente. Credo che quando un rapporto professionale si estende ad un’amicizia autentica è perché c’è molto da condividere, a prescindere dalla differenza d’età. In questi anni ho avuto la fortuna di conoscere e collaborare con artisti incredibili, alcuni dei quali hanno a loro volta apprezzato e promosso il mio lavoro (penso al rapporto con Ben Vautier, Philip Corner, Ben Patterson) e grazie ai quali ho avuto l’opportunità di crescere. Il rituale dell’inatteso parla anche di questo: della danza di un artista alla ricerca di un posto nel mondo.

Il tuo rapporto con UnimediaModern, con la sua storia e le sue collaborazioni artistiche, in ambito Fluxus e non solo, ha incrociato il tuo lavoro in alcuni episodi fondamentali…
Parlando di libertà di parola e di espressione, parliamo anche di arte. Sicuramente però, si può anche affermare che prima di Fluxus (se tralasciamo la figura avanguardista di Marcel Duchamp), l’arte non aveva ancora toccato la libertà assoluta. Lavorando con Caterina Gualco, ho avuto la fortuna di respirare l’atmosfera fluxus e di collaborare con alcuni artisti che sino a quel momento avevo solo studiato sui libri, e che non mi sarei mai immaginato di conoscere di persona. Tra le collaborazioni più felici e gratificanti c’è stata quella con Ben Vautier. Dopo averlo conosciuto a Nizza, nel 2012 mi invitò a Villa Arson in occasione di una retrospettiva dei suoi lavori performativi, per salire sul ring che aveva fatto costruire in una grande sala del museo. L’invito prevedeva che io facessi un’azione di 2’33’’ (citando e storpiando John Cage). Io non avevo assolutamente idea di cosa fare, tuttavia sapevo di non poter perdere quell’occasione, così decisi di creare una pagina web in cui era presente solamente il messaggio “the world is your oyster” (uno scaramantico “carpe diem” di radice shakespeariana). Ricavai quindi un codice QR collegato alla pagina e ne feci un cartellone che esposi sul ring per due minuti e trentatré secondi. I visitatori puntarono i loro smartphones su di me e Ben ne rimase affascinato. Le parole si componevano animandosi sugli schermi e lui, che è uno scaltro pensatore, mi propose di fare una mostra assieme. Fu l’inizio di un bellissimo progetto di collaborazione (ben&mauro.it), che ricordo con molto affetto e gratitudine.

Ci sono degli elementi ricorrenti nel tuo lavoro che tracciano, su una linea temporale lunga circa un decennio, un disegno, una composizione costellata di ritorni al passato e slanci verso il futuro… Penso al tuo consapevole rapporto con gli artisti concettuali, della Land Art o dell’Arte Povera. Penso al tema dell’identità che si confronta con le nuove tecnologie e con il concetto di virtualità, oggi metabolizzato, ma con cui, all’inizio, abbiamo dovuto fare i conti spingendoci in un territorio per lo più ignoto…
Assolutamente. Oggi è tutto metabolizzato, ma il percorso era già tracciato. Per fare un paragone con la Land Art: è come se nei primi anni 2000 ci fosse un solco e la mia intenzione era sbirciarvi dentro. Oggi quel solco è una voragine, talmente estesa da non percepirne più i bordi, e ci siamo dentro tutti. Ora che ci penso, probabilmente lo stesso pensiero è adattabile a innumerevoli periodi storici e estendibile in svariati ambiti. Guardare al futuro non è sufficiente per concepire qualcosa di nuovo. Studiando il lavoro di artisti come Luciano Fabro e avvicinandomi all’arte antropologica ho compreso che il passato contiene tutto ciò che ci serve, se lo osserviamo dalla prospettiva dell’uomo che guarda al futuro. Ho compreso che il + e il – si possono incontrare nella mente dell’artista.

2014

Il tuo lavoro studia la relazione tra natura e tecnologia puntando lo sguardo su animali, molluschi, crostacei, insetti, ossa e fossili. Attraverso l'uso della macchina fotografica e dello scanner leghi linguaggio analogico e digitale, trasformando questi soggetti nei protagonisti di vere e proprie radiografie. Come mai questa scelta?

La mia formazione è di tipo pittorico. ma ho sempre avuto un forte interesse per la fotografia. Ho incominciato a fotografare con una vecchi.a Olympus OM 1 analogica di mio padre. sviluppavo e stampavo in camera oscura. in parallelo dipingevo a olio. Nel 2006 per gioco fotocopiai la mano di un mio amico e decisi di incominciare ad approfondire quella tecnica perché rimasi colpito dall'immagine che avevo prodotto. Iniziai a usare il mio scanner come uno strumento fotografico, la necessita di sperimentare mi portò a utilizzare il mio corpo come soggetto e di conseguenza di ragionare sull'identità, sul post-organico e sull'aspetto. Le sperimentazioni su me stesso furono fondamentali per lo sviluppo del mio metodo di lavoro. Mi resi conto che quando appoggiavo il viso sui vetro dello scanner e il sensore luminoso innescava il movimento era come se tossi affacciato a una finestra verso un mondo virtuale, dove il mio riflesso. il mio "doppio"non era altro che una copia digitale, una vera e propria identità parallela. Iniziai a copiare il mio corpo fronte/retro in documenti fotografici. come si fa con la carta d'identità. Poi incominciai a provare a lavorare su soggetti diversi da me; Il mio grande interesse per le scienze naturali fece il resto. Lavorando su soggetti estranei al mio corpo, quindi con anatomie diverse da quella umana. ebbi modo di poter documentare il processo di scansione con fotografie e video e iniziai a costituire un vero e proprio archivio.

Questo processo parallelo di catalogazione e tuttora parte della mia ricerca.

Osservando le tue opere si nota una particolare predilezione per celenterati e animali provenienti dal mondo marino (meduse, coralli,

conchiglie, ostriche, polipi, calamari e razze). Da dove nasce questa passione per il mare e per i suoi abitanti?

E' successo tutto in modo piuttosto casuale. Un giorno un amico pescatore mi regalò un bellissimo calamaro ed io senza pensarci troppo provai a scansionarlo. La necessità di sperimentare e trovare soggetti nuovi spesso ci fa compiere scelte che hanno poco a che fare con la razionalità. I celenterati, come altri animali marini sono esseri abituati a vivere nelroscurita e nelle profondità inesplorate del mare, possiedono proprietà fotosensibili e tessuti translucidi, questo fa di loro dei soggetti interessanti, sia dal punto di vista del cromatismo che da quello della plasticità. Vivendo a Genova non ho difficolta a trovare soggetti. in particolare amo recarmi al mercato ittico all'alba, un posto davvero magico e ricco di suggestioni. Nel mio lavoro e importante il rapporto fra il mare e lo scanner. Entrambi in qualche modo fungono da "separatori" tra ciò che appartiene al reale e ciò che sta al di là, dove viviamo in apnea, come sott'acqua; mi piace pensare al vetro dello scanner come allo strato superficiale del mare. Gh animali marini sono i nostri aIter ego, come lo sono il nostro profilo di facebook o le nostre identità virtuali. Contrariamente a quanto avviene in fotografia, lo scanner ti permette di guardare il soggetto prescelto in maniera "impersonale" - un po' come awiene nei laboratori con il microscopio - conferendogli una componente piu scientifica.

I soggetti sono ben riconoscibili ma fluttuano in una sorta di liquido amniotico e sono intrisi di una materia cromatica cangiante. Come riesci ad ottenere tali effetti?

Preferisco usare lo scanner come uno strumento 'freddo'. come il microscopio o il telescopio. In fotografia possiamo decidere ogni cosa, dal' inquadratura all'esposizione, dal punto di vista alla messa a fuoco. Con lo scanner la scelta e più limitata, questo mi consente di pormi in maniera distaccata nei confronti del soggetto. L'effetto che ottengo e frutto di un'elaborazione digitale, che però ha origini dall'analisi del negativo fotografico ed e inevitabilmente influenzata dalla mia formazione pittorica.

 

Puntando sugli strumenti stessi della tua ncerca e sui relativi elementi primari - luce e trasparenza - recentemente ti sei soffermato sui

concetti di luminosità, flusso e soglia. che hanno portato alla nascita di una serie intitolata "scantype": Cosa sono gli ·scantypes· e come

interagiscono questi tre concetti nella tua poetica?

Scantype è il nome che ho dato al mio metodo di lavoro. Ricorda in qualche modo la serialità e la riproduzione; la desinenza -type è

comunemente associata a molte tecniche antiche di stampa fotografica, come Ila cianotipia o la dagherrotipia. I concetti di luce, flusso e soglia sono strettamente correlati allo scanner e ai suoi elementi. La luce oltre a essere un elemento fondamentale durante il processo di creazione si manifesta nelle immagini documentative del mio lavoro come una linea. Il movimento analitico e robotizzato del sensore luminoso conferisce al momento dell'acquisizione una ritualità temporale e un "ritmo visivo", un vero e proprio flusso, come accade quando si osserva la battigia sulla riva del mare. La soglia è il vetro: che riflette e separa, il punto d'appoggio ma anche di contatto fra ciò che "è" e ciò che "appare".

2013

Perché un esposizione organizzata in tre tempi e in tre luoghi?

L’evento è nato con l’approvazione da parte di Sala Dogana del mio progetto, in seguito Caterina Gualco mi ha offerto la possibilità di creare un secondo polo della mostra presso Unimediamodern. Vista la visibilità e l’importanza che l’evento stava acquisendo, ho seguito un consiglio prezioso e ho deciso di estendere ulteriormente il progetto organizzando un workshop. Grazie all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova e ad A329 Contemporary Art ho trovato lo spazio e i mezzi per poterlo sviluppare.

Il titolo è estremamente ermetico e suggestivo (e come i tre luoghi dell’esposizione, anch’esso è fatto di tre parole: cosa voluta?).

Posso ragionevolmente supporre che racchiuda il senso della tua ricerca artistica in questa mostra… luce, flusso, soglia: puoi spiegare? Questi tre elementi, luce, flusso e soglia sono concetti ai quali la mia ricerca deve molto. La luce è quella indagatrice dello scanner, ma anche una componente indissolubile della vita, in un certo senso è attribuibile alla nascita. Il flusso è il movimento dello scanner, ma anche il quotidiano vivere delle creature e l’inesorabile avanzamento del tempo. La soglia è il vetro dello scanner, ma anche il confine labile che divide l’oggetto reale da quello virtuale e il punto che separa la vita e la morte. Il concetto del trittico, in effetti, ha accompagnato spesso il mio lavoro, forse perché è il numero ideale per rappresentare un’azione: inizio-svolgimento-fine, luce-flusso-soglia. Questa mostra è una sorta di consacrazione del mio processo creativo, attraverso un’analisi sullo strumento stesso della mia ricerca. 

 

La terza parte di questo lavoro ha previsto un workshop con gli studenti dell’Accademia: me ne parli brevemente?

E’ stata una bellissima esperienza, Il workshop si è svolto all’interno dello spazio messo a disposizione da A329 Contemporary Art, un luogo ampio che possiede il fascino dello spazio industriale e le caratteristiche ideali per lavorare. Nei primi incontri ho cercato di dare ai ragazzi degli spunti mostrando loro alcuni esempi di spazi pubblici e il modo in cui sono stati sfruttati dagli artisti, ad esempio le grandi installazioni della Turbine Hall alla Tate Modern di Londra. Ho cercato di invitarli a invadere lo spazio che avevamo a disposizione e a non aver paura di esagerare. In seguito abbiamo studiato insieme come trasformare le idee in progetti e i progetti in realizzazione concreta. In questo modo ognuno ha sviluppato un percorso personale ispirandosi ai tre temi: luce, flusso e soglia.  

In quest’ottica, significa che credi nel lavoro di gruppo a livello artistico? Che il processo creativo possa avvenire in condivisione, acquistando forza?

Senza dubbio lavorare in gruppo a un progetto induce a riflettere su ciò che si sta facendo secondo parametri diversi, il processo di creazione perde la componente dell’intimità e del possesso lasciando spazio a quella del rapporto sociale e dello scambio d’idee. Molti studenti erano alla loro prima esperienza artistica e credo che lavorare in un gruppo sia stato molto importante per loro.

 

Come sei giunto all’utilizzo dello scanner e perché lo preferisci rispetto ad altre tecniche? Come arrivi alla definizione dell'immagine, a rendere la trasparenza nei soggetti scelti, che sembrano quasi immagini scientifiche?

Mi piace mettere in relazione l’arte con la natura e la tecnologia. La fotografia digitale lascia tanto spazio alla sperimentazione artistica, tuttavia le immagini che vediamo ogni giorno sono sempre più “etichettabili”, caratterizzate da filtri o effetti reimpostati, spesso ci si trova davanti a manierismi digitali. Per quanto possa sembrare strano, sono un appassionato della fotografia tradizionale, ed è proprio per questo che ho deciso di portare avanti il mio lavoro utilizzando un mezzo fotografico alternativo. Lo scanner mi permette di pormi in maniera fredda nei confronti del soggetto, come avviene nei laboratori scientifici. Nel mio lavoro la fotografia ha un aspetto prettamente documentativo, lascio che l’approccio spirituale del mio processo creativo si manifesti attraverso i miei lavori. Non sono un fotografo e tantomeno un video-maker, uso la fotografia e il video come mezzi linguistici.

 

In che modo avviene la scelta dei soggetti da sottoporre all’azione dello scanner?

Ho iniziato lavorando sul mio corpo, di quella fase del mio lavoro è rimasta la componente dell’interesse anatomico e lo studio estetico dei tessuti epidermici. Ho trovato interesse nei celenterati e negli animali provenienti dal mondo marino per via della loro proprietà fotosensibile, ma sono in continua ricerca di soggetti, mi piace che sia una cosa naturale, spesso mi capita di trovarli casualmente per terra. Lo scorso settembre ho presentato all’atelier Tranzit di Bratislava un’installazione che ha come soggetto centrale il teschio di grande uccello chiamato Nandù, trovato nel deserto, durante un viaggio nella Patagonia argentina.

 

A dire il vero, l'idea che un animale morto sia steso, compresso, rigirato ai fini della creazione dell'opera, potrebbe essere percepita come un po' disturbante. Ti sei mai posto il problema? E' un effetto che cerchi, magari?

Premettendo che sono un amante della natura e che non ucciderei mai un animale solo per fargli una fotografia, non nego che lavorare con soggetti privi di vita sia un aspetto del mio lavoro che non va ignorato. Credo che questo fattore debba indurre chi osserva i miei lavori a un’ulteriore riflessione, quella sulla vita e il mondo al quale apparteniamo. Cerco di dare ai soggetti una dignità estetica, una sorta di cruda eleganza, un inquieto fascino, lo stesso che si prova visitando un museo di storia naturale.  

 

L’uso dello scanner come strumento per creare un’opera forse è ancora insolito, ma ormai i supporti digitali, dallo strumento di partenza al software per la postproduzione, offrono un’intera gamma di sperimentazione e possibilità ancora inesplorate…. Mentre alcuni tuoi giovani colleghi dichiarano la morte della pittura, gli artisti maturi ribadiscono comunque l’imprescindibilità delle tecniche tradizionali. Tu cosa ne pensi?

I miei studi artistici sono di tipo pittorico, la pittura è una cosa più grande di quanto possa sembrare, non si manifesta solo attraverso la tela e il pennello, non è solo una tecnica artistica, è una cosa che diventa parte di te e ti permette di osservare il mondo come se avessi un senso in più. Non so se posso definirmi pittore, ma le mie scelte sono certamente influenzate dalla mia formazione. Non dichiaro la morte di niente, sarò nostalgico, ma per quanto mi riguarda, persino il rock’n’roll “will never die”.

 

Tu parti dal contesto genovese ma ti sei misurato con la realtà internazionale tramite residenze d’artista ed esposizioni… quanto è difficile qui per un giovane artista vivere del proprio lavoro? E all’estero? Ti viene voglia di fuggire?

Per un artista è fondamentale fare delle esperienze all’estero. Confrontarsi con altre realtà è importante sia dal punto di vista formativo che da quello lavorativo. Vivere del proprio lavoro è difficile ovunque, credo che un artista abbia una responsabilità nei confronti del mondo in cui vive, questo non va dimenticato, anche nei periodi più scuri. 

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